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  • Immagine del redattoreLucia Padovani

Libertà

Aggiornamento: 14 mar 2021


Cara amica mia, mi sento stanca, tanto stanca e non è solo il dolore fisico a farmi sentire così. Certo quello fa la sua parte, da tanti anni ormai, ma ciò che mi destabilizza di più è l’incertezza, il dovermi sentire sempre sul chi va là, sempre “en garde” … ogni giorno, in ogni momento della giornata, perfino di notte. Mi stanca il dolore fisico, quello mentale, mi stanca quell’odore nauseabondo che esce dal mio corpo. Mi stanca questa situazione che mi ricorda tutti i minuti che sono una donna mutilata. Tranquilla. Niente lagne. Io non posso nemmeno provare compassione per me stessa. Si può provare compassione per qualcuno a cui manca un braccio, a cui manca una gamba, ma per una a cui manca l’utero e che poi se ne va in giro per il mondo a fare spettacoli e a pubblicare libri, che cazzo di compassione dovresti sentire? Eh no mia cara. Se stai male … allora … ma ci devi stare tanto male e per molto tempo, meglio per sempre, altrimenti “ma vaffanculo”, che vuoi? Così va il mondo e così va anche quella parte di me che viene dalle mie radici e che è in risonanza con queste misere opinioni; con la convinzione che si è colpevoli e che la condanna a vita è sempre meritata. Sono stanca, anche di quell’altra lei/me, quella che si vergogna delle capacità che posso avere, della felicità che posso sentire o perfino dell’amore di mio marito, come se stessi rubando qualcosa a qualcuno. Porca puttana! Quanto dovrei soffrire ancora per credere di meritarmi l’amore, il bene, la gioia e la realizzazione di me stessa? Ma cosa vuoi realizzare se poi l’altra parte non vuole? Quella parte oscura di me, in verità, non vede l’ora di ritirarsi da questo mondo per godersi il silenzio ed un bel panorama in qualche luogo lontano. Un luogo in cui non sono conosciuta da nessuno, in cui nessuno si aspetta niente da me ed in cui io non mi aspetto niente da me stessa. Sento pace, amica mia, quando vedo quell’immagine di me che raccoglie legna per accendere il camino con un bello scialle sulle spalle; la vedo sai, mentre si guarda intorno con i suoi occhietti attenti e vivaci, per essere sicura che non ci sia che qualche animale fedele vicino a lei. In questo momento, in effetti, prevarrebbe l’arcano dell’eremita, quello che mi accompagna dalla nascita, che mi fa sentire sempre diversa e sola, dentro; come se fossi fatta di un genere di solitudine inguaribile che ha radice nella stranezza del mio essere. Credo che questo sia il mio demone più ignorante. È lui che mi fa sentire la nausea di tutto e di tutti, di questa gente che crede di essere qualcosa che non è e che crede che io sia qualcuno che non sono. Santa, puttana, amica, stronza, arrogante, buffa, sapiente, ignorante, carismatica, deficiente … Ma io non sono quella che hanno in testa, tu lo sai e lo so anch’io. Non sono nemmeno quella che ho in testa io, figuriamoci! Con te, però, almeno con te, non posso mentire. Che umanità è mai questa che non vuole vedere cosa si nasconde in loro? Che umanità è quella che non sa ascoltare e guardare nelle proprie viscere? Tutti parlano del cuore che palpita, ma nessuno dell’intestino che produce merda. Eppure noi siamo anche questo: siamo merda pura! Siamo anche stronzi. Povero intestino nostro, così lontano dal cuore, proprio lui che si preoccupa di scegliere: quello che va tenuto da quello che va lasciato, non solo nella vita ma anche in noi stessi. È meglio non conoscere il proprio intestino, stare lontani dalla nostra merda, dalle nostre assurdità, dai nostri drammi. Sai, credo che ci siano persone che senza i drammi non ci sanno vivere. Del resto cosa sarebbero alcuni senza un dramma in cui marcire, senza quella pena che devono sentire per se stessi e per la sfortuna che sentono accanirsi su di loro? Niente! Non sarebbero niente. Per questo passano da un dramma ad un altro. Che sia loro o di qualcun altro ha poca importanza … quando non è personale, è di un amico, è della società, è del mondo … basta che ci sia qualche “malato” di cui aver pena, in cui poter riversare il personale bisogno di dare un senso alla propria vita. E poi c’è un’altra lotta. Quella che avviene tra questa parte di anima e quella che vorrebbe leggerezza, che vorrebbe ridere ma che, quando si azzarda a farlo, quando tenta di fare un passo verso la spensieratezza, viene riportata inesorabilmente all’ordine. È “la solitudine della gioia”, la paura più diffusa, perché se sei felice o cerchi di esserlo, ai martiri ed ai santi stai sul cazzo; se non hai le stigmate che vuoi da noi? Perciò pure io divento insopportabile, sì perché forse pure io senza questo dolore che mi accompagna da una vita, non sono niente. Anche a me probabilmente resta difficile lasciarlo andare perché significherebbe lasciare andare tutto e tutti … Il volo maestoso l’aquila lo fa da sola e allora, visto che non so essere aquila, devo rassegnarmi a fare la gallina amica mia. Sto imparando a fare coccodè … così mi sento meno sola. Grazie per avermi ascoltata! Grazie per esserci sempre. Ti abbraccio forte …

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